Dad sì o no? Il parere dell’insegnante e illustratrice Giorgia Atzeni
Giorgia Atzeni è storica dell’arte, illustratrice, grafica editoriale e soprattutto insegnante di materie letterarie e storia dell’arte nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Vive e lavora a Cagliari. Per Bacchilega Junior ha pubblicato Prima e poi, albo di poesie firmate da Teresa Porcella; per lo stesso editore illustra la serie Storie del nido della collana I Libricini (che a oggi conta cinque titoli di piccola narrativa per piccolissimi lettori). Questa sua testimonianza è stata pubblicata sul settimanale Sabato sera del 18 marzo 2021.
Noi prof coraggiosi, molto motivati e amanti delle assurde novità che la vita ci riserva soprattutto in ambito professionale, in quest’ultimo anno ci siamo buttati a capofitto in un’impresa mica facile: far funzionare alla bell’e meglio, in tempi di pandemia, l’insegnamento da remoto. Giovani e meno giovani, adolescenti, bambini e docenti di vecchia e nuova guardia hanno provato gioie e dolori dello smart working. Ma qui non si tratta semplicemente di spedire mail, di mantenere i contatti coi clienti, di partecipare a estenuanti call conference coi colleghi e capi d’azienda. Tutte attività tanto nobili quanto stressanti. No! Qui si tratta di portare avanti l’azione educativa attraverso i «potenti» mezzi del web. Educare a distanza, ormai l’abbiamo capito, è certamente un ossimoro. Un ossimoro, a tratti indispensabile, da somministrare in emergenza con moto alternato.
Il senso dell’«e-ducare» sarebbe quello del «condurre fuori». Attività improbabile da realizzare nei mesi di clausura, quando tutti sono stati «dentro» per il lockdown del primo Dpcm dell’era Covid. Incarico inverosimile per gli insegnanti soprattutto nella primissima fase in cui la dad è approdata sul pianeta scuola e di nuovo oggi che la terza ondata sembra travolgere la penisola contrassegnata da colori più o meno accesi.
Trattandosi di espressione astratta figurata quanto il famoso «Imbuto di Norimberga» (Nürenberg tricther o Nürenberg Funnel), l’ossimoro dell’educazione a distanza dovrebbe funzionare, suonare bene, come tutte le figure retoriche. Tuttavia l’esperimento, viepiù necessario, inizia a produrre suoni dissonanti e poco armonici. Quella dell’imbuto è una descrizione ironica che pretenderebbe di visualizzare l’azione dell’educare o dell’insegnare, ovvero la pratica di travasare contenuti nozionistici, o conoscenze, da un «contenitore A», pieno, a un «contenitore B», vuoto o semivuoto, con caduta verticale, soprattutto se il docente sta più in alto del discente, meglio se su una predella. Questo sembra incontrovertibile nella tradizione figurativa e letteraria barocca sino a oggi, anche se la «caduta dall’alto» delle informazioni poi ha avuto in classe, non dimentichiamolo, una metamorfosi «frontalizzata» secondo la linea «cattedra-banco» con distribuzione ramificata «a pioggia» come nel proverbiale droplet.
Detto così sembra molto semplice e lineare. Io parlo. Tu ascolti (se ascolti). Tu impari (forse).
Per illustrare oggi l’atto di e-ducare e insegnare io preferisco usare la metafora della siringa nell’atto di aspirare, di un cavatappi, di un aspirapolvere «che porta fuori», estrae quel che c’è di buono, con un processo metacognitivo, in cui talvolta si assumono le conoscenze e talvolta le si estraggono, magari dopo una buona rimescolata in un frullatore-estrattore di succhi di frutta e verdura. L’educare, con o senza imbuto, tuttavia non implica sempre e solo il condurre fuori – all’aperto, oggi più che mai – i discenti per permettere loro di conoscere il mondo con l’esperienza diretta delle cose, ma anche (e soprattutto) di condurre loro «fuori dagli schemi», dai «peccati originali», per combattere (come cita il dizionario) dalle inclinazioni non buone, anche se a questo punto ci si immette in un campo che non vorrei invadere mai, ovvero quello della morale. Quindi è chiaro che il condurre fuori è essenziale nell’apprendimento esperienziale, sebbene quasi mai gli studenti escano dalla classe (questo comporta ogni volta stressanti responsabilità burocratiche e penali che fanno desistere anche i maestri e i prof più motivati!). Prassi vuole che per un intero anno scolastico i ragazzi abbandonino una stanza per entrare in un altro luogo chiuso, la classe.
Ma veniamo al dunque: non recandosi più nemmeno a scuola gli scolari devono imparare qualcosa pur stando fermi in cameretta. Devono ascoltare o visualizzare attraverso lo schermo del tablet o del cellulare un’opera d’arte o un testo ma non possono fare esperienza diretta delle cose. Argomento che non porterei necessariamente in favore della lezione in presenza perché anche in classe il tour al museo si faceva virtualmente, attraverso lo schermo della lim.
Tecnologi e tecnofobi si affrontano e dibattono: dad sì o dad no?
Oggi sono in tanti a criticare e demolire l’esperimento didattico che c’è capitato a tiro! Altri lo preferiscono, perché su Meet finalmente c’è il tasto per silenziare la classe che rumoreggia. Lo capisco! Nessuno se lo aspettava. Nessuno era pronto. Chi poteva immaginare un mondo in lockdown, tutti a casa, ma tutti tutti tutti! E cosa facciamo allora, ce ne freghiamo? Non se ne fa niente? Tergiversiamo? Vacanza per tutti? Chiudiamo la baracca? Viva le ferie a casa! Si dorme, si mangia, si guarda la tivù? Niente matematica, niente storia, niente scrivere, niente leggere? Niente grammatica, niente inglese, per tre mesi? E così pure ad libitum per i tre-sei mesi successivi? L’abbiamo desiderato tante volte un mondo così. Tutti in pantofole. Quanto è durato questo entusiasmo iniziale? Si è rivelato un passo lento e spento dal letto allo schermo e ritorno. Gli studenti hanno visto all’orizzonte il colore della noia. Perché insomma, toglietemi tutto ma non il piacere di andare a scuola in autobus, la chiacchiera davanti all’istituto, gli sguardi e le risatine in classe; il contatto oculare con il docente, i bigliettini sotto il banco, la matita che cade, i «Portami il diario», i «Prof posso andare al bagno?», i «Non dondolarti sulla sedia!»; «Zitti e buoni!».
La scuola è «incontro». A tal proposito mi sento una privilegiata, perché a tutt’oggi posso dire con fatica ma tanto orgoglio che le mie lezioni nella scuola media di via Piceno a Cagliari si sono svolte, a parte brevissime parentesi di quarantena, corpore praesenti. Non si dimentica la sensazione di appartenere a una di quelle prof mascherate, igienizzate e ben distanziate di fronte a poveri alunni smarriti e increduli dopo la prolungata e forzata pausa sociale. Il primo giorno di scuola è stato uno spettacolo incrociare gli sguardi sgomenti degli studenti in presenza. Ogni loro occhiata ha nascosto un «Oh no, dov’è lo schermo? Qui ci sono i prof dal vivo. Come la mettiamo?».
Alle norme di base si aggiunge oggi il protocollo Covid. Si tratta di tanti «nonsipuò» messi in fila. Tanti «no» che non ci piacciono. Chiaramente tutti vorrebbero eliminare le limitazioni portate a scuola dal Coronavirus. I ragazzini vogliono fare tutto ciò che prima non era «vietato» ma «normale vita insieme»: abbracciarsi, giocare, condividere i materiali. Anche i più piccolini imparano il mantra della mascherina e dell’igienizzazione e con grande fatica lo applicano.
É necessario essere molto ligi per non cadere dalla padella nella brace. Siamo blindati, io e loro. La mattina ci prepariamo: coi nostri bei dispositivi e ben pettinati usciamo dalla nostra vita domestica per incontrarci e lavorare alacremente per riprenderci le abilità intrapersonali e interpersonali, per conoscere meglio noi stessi e chi ci sta a fianco. Per affrontare «insieme», tra una verifica di grammatica e un capitolo di storia, la paura e il disagio di questi tempi difficili.
Giorgia Atzeni
Bellissima riflessione questa della cara e davvero brava Prof.ssa Atzeni. Siamo davvero felici di averti nella nostra scuola ☺