Il regista Pupi Avati a Medicina in occasione della proiezione del suo film «Il signor Diavolo»
«Quando arrivi a cinquanta film, tra cinema e televisione, è chiaro che non puoi pensare che ti piacciano sempre e ancora tutti. Alcuni hanno avuto successo, di critica e pubblico, altri invece sono andati meno bene. Io però sono rimasto coerentemente sempre me stesso». Pupi Avati, 81 anni, sarà presente domani, giovedì 23 gennaio alle 20.30 alla Sala del Suffragio di Medicina, per la proiezione del suo film «Il signor Diavolo»: Avati è uno dei più importanti registi italiani anche perché ha continuato ad alimentare i suoi film con la memoria e la confessione dei suoi ricordi, «in una totale, assoluta – aggiunge lui– mancanza di talento».
Ma come?
«In tanti miei film c’è l’autobiografia un po’ compiaciuta di chi si è dovuto bruscamente svegliare dal suo sogno. Il mio era quello di diventare musicista, ma essendo molto limitato e privo di talento è stato solo da regista che sono riuscito a dire chi sono, a certificare me stesso, con uno strumento, il cinema, più docile della musica».
È la storia del clarinetto, della rivalità con Lucio Dalla…
«Sì, io la racconto perché al pubblico fa sempre ridere ma per me è stata una sofferenza enorme».
Perché il cinema è più docile della musica?
«Perché mi assomiglia terribilmente, è totalmente coincidente con il mio modo di fare e mi permette una calligrafia personale e popolare. La musica no, era il mio sogno e non ce l’ho fatta».
A Medicina presenterà al pubblico «Il signor Diavolo», ultimo film che ha segnato il suo grande ritorno al genere horror. Lo definiamo facilmente anche bellissimo esempio di quel gotico padano di cui solo Pupi Avati è Maestro, ma l’etichetta «gotico padano» le piace davvero?
«Sì, mi piace. Nacque quando uscì al cinema “La Casa dalle finestre che ridono”, dove in realtà “gotico” era solo una definizione ispirata al libro “Sette storie gotiche” di Karen Blixen. Poi, credo anche grazie a Eraldo Baldini, arrivò “padano”, aggettivo suppletivo che descrive ancora meglio non solo l’ambientazione geografica, ma proprio il mistero di questi luoghi legati alla terra, al lavoro contadino, alle tradizioni più di campagna che di città». (c.o.)
L”intervista intera è su «sabato sera» del 16 gennaio