Visita alla Fondazione Iret di Ozzano Emilia, dove si fa ricerca sulle malattie neurodegenerative
La Fondazione Iret è uno dei centri di eccellenza che lo scorso 27 settembre, in occasione dell’evento «Emilia-Romagna Open» e della «Notte europea dei ricercatori», ha aperto le porte al pubblico. Non ci siamo lasciati scappare questa opportunità e ci siamo uniti al piccolo gruppo di visitatori, composto per lo più da studentesse universitarie e accolto in modo caloroso negli spazi di via Tolara di Sopra. A fare gli onori di casa è stata la direttrice scientifica della Fondazione, Laura Calzà, che ha spiegato in modo chiaro di che cosa si occupa l’ente no profit, voluto dieci anni or sono da lei e dalla collega Luciana Giardino, oggi presidente della Fondazione, facendo poi seguire la visita ai laboratori. Infine, ha risposto alle nostre domande.
Dottoressa, ci può fare qualche esempio dei risultati raggiunti dalle vostre ricerche?
«Per quanto riguarda la demenza di Alzheimer, abbiamo lavorato sulla fase pre-clinica, dimostrando una vulnerabilità legata al metabolismo energetico del sistema nervoso, che compare ben prima delle placche tipiche dell’Alzheimer. La nostra ricerca ha evidenziato che esiste una sofferenza metabolica che provoca difficoltà nelle risposte, ancor prima che si depositino tali placche. Sul tema dell’alterazione del linguaggio tipica nei malati di Alzheimer, in collaborazione con i colleghi del dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna, abbiamo provato a usare metodiche nuove di analisi del linguaggio per una diagnosi il più precoce possibile. Si tratta di linguistica computazionale applicata al linguaggio spontaneo: non quello, per intenderci, legato alla visita in ambulatorio, dove il paziente tende ad esprimersi in una situazione di ansia, ma applicata al parlato registrato in contesto naturale. L’analisi computerizzata è in grado di cogliere segni più precoci di alterazione linguistica. Intonazione, pause, enfasi e musicalità risultano in effetti alterati, ancor prima della perdita della parola stessa».
Se ci si volesse sottoporre a questo tipo di test a chi ci si può rivolgere?
«Lo sconsiglio caldamente: il metodo, anche se già ripreso da altri laboratori (l’ultimo in ordine di tempo, un gruppo cinese) deve essere ulteriormente validato. Ma esistono anche altre ragioni. Faccio un paragone estremo: genitori portatori di una malattia genetica effettuano il test per sapere in anticipo se il loro bimbo sarà malato. Siamo sicuri di volere una diagnosi quando non abbiamo ancora una terapia per quella malattia? Si tratta di novità e procedure che devono essere inquadrate in un contesto preciso. Da una parte c’è l’esigenza di ricerca: potremo sviluppare una terapia per rallentare la demenza se avremo gli strumenti per identificare la malattia prima che sia manifesta. In altri termini: dovremmo avere gli strumenti per dire a una persona se è a maggior rischio. Negli Usa si fa senza problemi, così come nei Paesi del nord Europa. In Italia è un tema ancora difficile da affrontare edè una questione puramente culturale:da noi si fa ancora fatica a dire a un familiare che ha un tumore, anche se il tumore può essere affrontato, figuriamoci se si tratta di una malattia per cui non esiste ancora una cura. Abbiamo quindi anche un problema culturale, legato alla paura che alcune malattie inducono».
La Fondazione Iret lavora su molteplici fronti e collabora anche con il Montecatone rehabilitation institute. Di che cosa vi siete occupati di recente?
«Oltre alle lesioni acute e alle malattie degenerative croniche del sistema nervoso, qui studiamo le lesioni traumatiche del cervello e del midollo spinale. Per quanto riguarda Montecatone, un progettopre-clinico ha riguardato la possibilità di cercare di prevenire o ridurre gli effetti delle lesioni contusive del midollo spinale, e abbiamo brevettato una miscela di farmaci che, da un punto di vista sperimentale, è efficace per limitare i danni. Lesioni di questo tipo danno infatti il via ad altri fenomeni molecolari che nel giro di giorni, settimane e mesi si estendono. A questo fenomeno sono ascrivibili due complicanze sfortunatamente abbastanza comuni: il dolore e le contrazioni agli arti paralizzati. Dovremmo convincere il neurochirurgo che è opportuno intervenire in fase acuta, anche se ci scontreremo probabilmente con i dettami della medicina difensiva (per diminuire la possibilità che si verifichino esiti negativi per il paziente in seguito all’intervento sanitario)». (lo.mi.)
L”intervista completa è su «sabato sera» del 10 ottobre
Nella foto la sede della Fondazione Iret