Non autosufficienza, più che raddoppiati in dieci anni i disabili assistiti a domicilio e nelle strutture del territorio
Quando si parla di non autosufficienza, si pensa in genere agli anziani. In realtà, tra i beneficiari dei servizi vanno annoverati anche i disabili e i pazienti psichiatrici, che incidono non poco sulla tenuta del sistema. Per quanto riguarda i soli casi di disabilità grave ricoverati nelle strutture del circondario imolese, in dieci anni sono più che raddoppiati, passando da 43 a 93, di età compresa tra i 18 e i 64 anni. Il motivo lo spiega il direttore del Distretto dell’Ausl, Alberto Minardi: «Oggi i portatori di handicap hanno una speranza di vita superiore. La stessa cosa accade per i malati psichiatrici. Questo grazie alla qualità dell’assistenza erogata».
Alessandra Cenni, fisioterapista del dipartimento cure primarie dell’Ausl, racconta che ci sono situazioni anche molto complesse che, grazie alla forte motivazione dei familiari, sono comunque seguite a domicilio. «Abbiamo 17 persone che vivono in famiglia. Con livelli di gravità molto simile ai ricoverati in struttura, ma con parenti che hanno una forte propensione a tenere il proprio caro a casa. I caregiver sono preziosi alleati, ma devono essere anch’essi monitorati, perché alcune situazioni sono davvero pesanti e il rischio è che i familiari divengano anch’essi degli utenti».
A Imola la struttura residenziale per disabili è la Don Leo Commissari, che offre 15 posti più due di sollievo. Molti casi gravi (per gravi si intendono persone non autonome nelle funzioni vitali o con seri problemi comportamentali) sono ricoverati anche nella Fiorella Baroncini e nella casa di riposo di via Venturini sempre a Imola oppure in quella di Castel San Pietro, che garantiscono un’assistenza infermieristica giorno e notte in caso di necessità. Le famiglie pagano solo trasporti e pasti, mentre la retta è coperta in parte dal Fondo regionale per la non autosufficienza (nel 2018 per il circondario imolese sono arrivati 12,8 milioni e altri verranno da 4,3 milioni stanziati dalla Giunta prima di Natale, in tutto 6 milioni in più rispetto al 2017), e in parte da risorse dei Comuni, per un totale di 420.000 euro l’anno.
Passando invece ai pazienti psichiatrici, parlare di domiciliarità significa in un certo senso ripercorrere la storia del superamento dei manicomi. «Noi siamo stati i primi a ribaltare il paradigma ospedale-territorio, dal 1978 – interviene la direttrice del Dipartimento di salute mentale, Alba Natali -. Il nostro modello di riferimento è la psichiatria di comunità: la malattia mentale è specifica, ma ci sono sempre aspetti sociali e psicologici accanto a quelli medici. Chi entra dalla nostra porta è seguito con un progetto individuale: c’è chi è visto solo dallo psichiatra, ma casi più complessi possono richiedere il coinvolgimento del servizio sociale o altro».«Nel 2017- prosegue Natali – gli operatori (prevalentemente infermieri) hanno fatto oltre 7.500 interventi domiciliari, ai quali vanno aggiunti i circa 4.000 degli educatori del privato sociale. I pazienti con terapia psichiatrica traggono un grande beneficio dal rimanere a casa, non è buonismo ma scientificamente una delle migliori “medicine”. Ma questo significa sviluppare supporti per le famiglie, perché c’è una complessità che richiede interventi psico-educativi, consultazioni e terapie familiari». (mi.ta.)
L”articolo completo è su «sabato sera» del 21 marzo
La foto è tratta dal sito della Regione Emilia-Romagna