Buona Settimana di Marco Raccagna: “Lo statuto condanna il Pd a congressi fuori dal tempo”
Il Partito democratico è nato il 14 ottobre del 2007. Sono trascorsi quasi 11 anni e mezzo e, dal punto di vista politico e delle dinamiche interne della vita del partito, da quel giorno è stato permanentemente in congresso, con fortune alterne. Ma con una costante preoccupante. Qualsiasi fosse il leader e la classe dirigente (ma anche nelle ultime file non sono mancati gli schiamazzi), ce le si è date di santa ragione quasi ogni giorno, sia a livello nazionale che a livello locale. In particolare, dall’avvento sulla scena nazionale di Matteo Renzi. Una rissa quasi continua, che ha nel tempo minato fortemente i legami ideali e anche personali all’interno di questa comunità e che ha prodotto alla lunga disaffezione e disamore.
Oggi siamo a metà dell’ennesimo congresso formale. Zingaretti (nettamente vincente in questa prima fase), Martina e Giachetti sono i tre sfidanti per la segreteria, sopravvissuti dopo il filtro delle convenzioni riservate agli iscritti, che si confronteranno nelle primarie del 3 marzo prossimo. Non entrerò nel merito del congresso e delle sue dinamiche nazionali e locali, anche se si assistono a «ritorni» che stupiscono e a corse per un posto in prima fila che appaiono un poco slegate dalla realtà. Voglio invece soffermarmi su due questioni piccole piccole (sui grandi temi tornerò), per poi avanzare una suggestione, consapevole che non avrà rilevanza.La prima questione riguarda il fatto curioso che gli odierni candidati alla segreteria, come i loro predecessori, e come ogni dirigente che prenda la parola in un qualsiasi circolo Pd durante un congresso, affermino ogni giorno che i loro avversari non stanno dentro ma fuori dal partito. Quasi a voler negare se non un’evidenza, almeno la percezione che i cittadini potrebbero avere: e cioè che il Pd stia affrontando il congresso ancora una volta senza esclusioni di colpi tra i contendenti e in modo autoreferenziale. Non è quindi un bel segnale, perché il solo bisogno di doverlo chiarire la dice lunga sul clima interno al Pd. Dietro quella frase c’è infatti un male profondo che viene da lontano. Curabile? Incurabile? Io credo sia curabile, attraverso azioni concrete però e non a parole. Le stesse che potrebbero riconnettere quel partito al sentimento del Paese e che riguardano molti ambiti della sua vita: dai contenuti al come si seleziona la classe dirigente, dai luoghi di vita del Pd alle regole della sua vita interna, fino alla sua capacità o meno di mescolarsi e fondersi nella società.
La seconda questione è lo Statuto del Pd, che lo condanna ad una vita e a congressi che corrono il rischio di collocarlo semplicemente fuori dal contesto. Lontano mille anni luce dalla vita reale e dalle discussioni che animano la politica, i luoghi di ritrovo, le cene in casa, in famiglia. Ma si può, con tutto ciò che accade, restare tre mesi in congresso? A nessuno sembra che in questo modo la distanza tra il Pd e cittadini possa aumentare? Si possono avere organismi dirigenti così numerosi che nemmeno il Partito comunista cinese ha e processi decisionali che, di fatto, impediscono ogni decisione?Il Partito democratico, in ogni caso, resta l’unica alternativa possibile alle forze politiche che oggi governano l’Italia. Lo si può criticare e anche amare meno di un tempo, come i consensi affermano. Tuttavia dimostra tenuta nei sondaggi (17/18%) ed è vivo, anche se a macchia di leopardo. E allora forse ci vorrebbe più impegno, più coraggio, più generosità. Per aggirare le trappole di uno statuto assurdo che non si riesce a modificare, per non guardarsi più in cagnesco tra iscritti ed elettori e per iniziare a riconnettersi al Paese, non sarebbe forse meglio che i tre candidati (e chi altro si vorrà, ci mancherebbe) si parlassero e due di loro si ritirassero? Il 3 marzo è quasi primavera e potrebbe anche splendere il sole e, invece che dell’ennesima conta, rinascere qualcosa di buono. Buona settimana.