La Badia di Moscheta, storia e leggende di un antico insediamento monastico nella val d”Inferno
Moscheta è una località storica e leggendaria in comune di Firenzuola, nella valle del torrente Veccione, dove il rio per millenni ha scavato la montagna dando origine a quella caratteristica e suggestiva gola chiamata val d’Inferno. Moscheta è raggiungibile scendendo dal Passo del Giogo, sulla strada Flaminia Militare dei romani, che è stata anche la Via Postale Bolognese, oppure da Firenzuola seguendo il torrente Violla.
La storia di Moscheta si identifica con la storia della sua abbazia vallombrosana fondata nel 1034 per ordine di San Giovanni Gualberto che, convertitosi nel 1003, abbandonò Firenze in odio alle grandi simonie che vi si commettevano e salì verso la montagna in cerca di qualche luogo deserto dove poter fondare un nuovo monastero improntato alla più severa disciplina. A quei tempi i monti erano praticamente senza vie, coperti di selve e boschi impenetrabili dove risuonavano le grida selvagge dei lupi e per i fossati strisciavano grosse serpi e i pochi varchi dell’Appennino erano infestati dai banditi che assaltavo i viandanti.
Valicato il passo del Giogo, San Giovanni Gualberto visitò molti romitaggi, fino a giungere a Camaldoli e poi a Vallombrosa, dove rimase per qualche tempo in grande solitudine. Tutta la zona era dominio degli Ubaldini, potente famiglia toscana, e quei luoghi erano residenza estiva del conte Gotizio. Il luogo scelto fu Moscheta, dove forse esisteva già un primitivo romitaggio, un piccolo monastero con pochi monaci, ma San Giovanni Gualberto, trovando che il luogo poteva consentire la presenza di una più grande famiglia, fece pervenire molto denaro e autorizzò le spese per l’ampliamento della prima costruzione.
A questo punto comincia la storia della Badia di Moscheta, ma cominciarono anche i primi guai, perché l’abate Rodolfo dei Galigai, cavaliere fiorentino, giovane di talento a cui furono affidati incarichi importanti, si mise all’opera senza badare a spese per realizzare un’opera enorme. La cosa però non piacque a San Giovanni Gualberto quando ritornò in visita. Non piacque la grandiosità, ma soprattutto non piacque il lusso e lo sfarzo con cui erano stati spesi i soldi dei poveri. Ne fu talmente addolorato che nemmeno volle entrare e, ripartendo sdegnato, si rivolse a quel rio che scorreva sotto quel fabbricato, il fosso Vacchile, e disse: «Se mi vendicherai, o rivolo, dell’ingiuria fattaci da questo abate con cotanto lusso di case, accrescerò le tue acque d’un otre del fiume di Sieve». Questa preghiera, la leggenda dice, fu purtroppo ascoltata e in breve il rio si gonfiò di acqua e pietre a tal punto che distrusse quasi tutta quella grandiosa costruzione.
Come poté verificarsi in realtà tale fenomeno? Mistero. Il monastero comunque dovette essere ricostruito. Alcuni anni dopo accadde che a Moscheta un uomo morente fece testamento a favore dell’abate Rodolfo. Gli eredi si lamentarono e San Giovanni Gualberto, saputo della cosa, si recò a Moscheta e, presa dalle mani dell’abate la carta di quella donazione, la strappò. Poi pregò San Pietro di liberare quei monaci da ogni pensiero dei beni terreni e di ricondurli a quella povertà per cui avevano scelto la loro missione e se ne partì. Ma mentre saliva il monte vide levarsi improvvisamente del fumo dal convento, che bruciò in gran parte e nessuno ne seppe mai le misteriose cause.Vi fu poi la riappacificazione tra il Santo e i suoi monaci, che furono esortati nuovamente alla fedeltà delle loro regole.
Furono stanziati altri soldi e fu rifatto il monastero. Questa terza riedificazione della Badia fu certamente quella che nelle linee generali è arrivata fino ai nostri giorni. La Badia di Moscheta, come tutte le badie Vallombrosane, si era fatta ricchissima, soprattutto in quanto ogni buon uomo, morendo, lasciava molti suoi averi al monastero per la salvezza dell’anima. E’ vero che la carità ricevuta veniva poi elargita ai poveri, che venivano aperti ospizi e ospedali lungo le strade, ma si sa, dove girano molti soldi, può succedere che anche la fede vacilli. Moscheta seguitò ad essere la provvidenza dei poveri, ma i tempi di fede andavano illanguidendo e le ricche badie vennero sempre più sfruttate dai laici; anche Mo-scheta passò in commenda e ciò decretò la sua fine.
Nel 1600 il nome di Moscheta fu estinto nella Congregazione Vallombrosana e il granduca Pietro Leopoldo ne decretò la soppressione nel suo intento di riformare la Chiesa in Toscana. I beni della badia furono messi all’asta e a Moscheta rimase solamente un parroco. Coi soldi ricavati, alla fine del 1700, furono ricostruite due chiese a Firenzuola e Rifredo, furono fondate le Scuole ecclesiastiche di Firenzuola e furono costruiti i due ponti, che rimangono ancora oggi a Camaggiore presso Coniale, sul Santerno e sul Diaterna. (ve.mo.)
L”articolo completo è su «sabato sera» del 31 gennaio
“Dove l’abbandono lascia morire il respiro di Dio”, niente di piu’ calzante. Ma purtroppo non c’è solo l’abbandono, ma anche lo spregio: davanti alla Badia , al di la del torrente, 2 piccoli condomini fiancheggiano la strada, imponendosi pesantemente sul delicato ambiente dell’antichissimo cenobio. Non manca certo lo spazio intorno.Certi luoghi sono sacri, unici, abbiamo il dovere di lasciarli il piu’ intatti possibile alle generazioni future.
Bella emozione leggere tutte queste notizie
Tutto ciò contribuisce a far crescere l amore per quelle terre
tempo fa avendo visitato il sito avevo condiviso su Facebook un articolo dal titolo,Badia Moscheta:” Dove l’abbandono lascia morire il respiro di Dio”. Questo dopo aver risalito il sentiero Cai 713 lungo il Veccione ( la valle dell’ inferno) fino a Badia Moscheta con lo scopo di visitare un abbazia del XI secolo .. e invece non ho visto nulla se non il cortile ,la chiesa risulta abbandonata e non visitabile ..possibile che non si possa fare nulla ???
Ho apprezzato molto l’articolo di Venerio in quanto abbastanza esaustivo, spero che contribuisca a generare qualche iniziativa di volontari per il restauro anche della chiesa elemento fondante del complesso monastico.