Da Black Monkey ad Aemilia: i processi che hanno confermato la presenza della ”ndrangheta in Emilia Romagna
La sentenza del processo Aemilia di mercoledì 31 ottobre ha comminato oltre 1.200 anni di carcere e la piena conferma dell’impianto accusatorio. Soprattutto ha confermato ancora una volta la presenza della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Una ‘ndrangheta che si infiltra nei settori economici, che si radica nell’economia e la sporca, ne cambia i meccanismi; una ‘ndrangheta che, per entrare ancora più in profondità, non si fa scrupoli ad usare la violenza: incendi, sequestri, minacce, estorsioni, danneggiamenti, omicidi e tentati omicidi, sfruttamento.
E’ una violenza che non sempre, però, si manifesta: è una violenza intrinseca. Sentito dai giudici della Corte di Aemilia, Enzo Ciconte, docente di storia della criminalità organizzata, aveva parlato dei mafiosi come «portatori di violenza»: per capire di avere a che fare con un mafioso non c’è bisogno che ci sia una pistola sul tavolo. A volte, infatti, il metodo mafioso si sviluppa senza violenza, «sapendo però che il soggetto è portatore della violenza e potrebbe tirare fuori la pistola». E’ il concetto che sta alla base della forza di intimidazione.
In molti, in troppi, hanno avuto una «idea bislacca», diceva sempre Ciconte, secondo la quale al Nord non c’erano le mafie. «Quante autorità hanno sostenuto che la mafia non c’era? E che il problema era di quei terroni che hanno rotto le scatole e sono venuti qui». La causa è dovuta, secondo l’esperto, alla corazza protettiva che si riteneva essere l’antidoto alle mafie, ma che invece è stata la causa del radicamento di esse: i soldi.a ricchezza dell’Emilia Romagna e del Nord ha tranquillizzato la maggior parte della popolazione che per tanto tempo – e ancora adesso – si sente immune da un radicamento vero e proprio.
Una buona parte di Emilia Romagna non si è svegliata con l’Operazione Aemilia, quando all’alba del 28 gennaio 2015 elicotteri e volanti con le sirene spiegate hanno svegliato interi paesi, non si è svegliata con l’inizio del processo Aemilia, non si è svegliata neanche con le importantissime sentenze del 31 ottobre. Una buona parte si è svegliata lunedì 5 novembre, quando a Pieve Modolena, in provincia di Reggio Emilia, Francesco Amato, condannato in Aemilia per associazione mafiosa, usura ed estorsioni, ha tenuto in ostaggio cinque persone per otto ore all’interno dell’ufficio postale del paesino, armato di coltello, perché riteneva ingiusta la sua condanna a 19 anni. E così, gran parte della popolazione, non tutta, si è accorta che la ‘ndrangheta emiliana fa paura.
Ma era proprio da un altro sequestro, quello ai danni di Et Toumi Ennaj, che era partito un altro importante processo di ‘ndrangheta: il processo Black Monkey. L’11 gennaio 2010 dall’hotel Molino Rosso di Imola parte una telefonata alle forze dell’ordine: un ragazzo denuncia un tentato sequestro ai suoi danni. Il tentativo di sequestro, in parte riuscito, è partito da un bar di Borgo Tossignano, dove Et Toumi viene «invitato» da Filippo Crusco, condannato in primo grado a tre anni, ad uscire. All’esterno li aspetta un suv bianco, sul quale il ragazzo marocchino viene costretto con la forza a salire. Arrivati all’hotel, poco dopo il casello autostradale di Imola, Et Toumi riesce a scappare e a rifugiarsi nella reception. Questo è il primo dei fatti che svelano le modalità della ‘ndrangheta, in un processo, Black Monkey – il primo grande processo di ‘ndrangheta in Emilia Romagna – lasciato da parte da quasi tutti i media, locali e non, che hanno contribuito a una grande disinformazione al riguardo.
Eppure il processo vede alla sbarra un clan, con a capo Nicola Femia detto Rocco – condannato a 26 anni in primo grado e poi diventato collaboratore di giustizia – che ha creato un vero e proprio impero del gioco d’azzardo, legale e illegale, non solo in Emilia Romagna. A partire da Conselice, in provincia di Ravenna, dove la famiglia si è trasferita nel 2002 da Marina di Gioiosa Ionica, ma anche in Veneto, Campania, Puglia, Calabria, Inghilterra e Romania. Secondo il pubblico ministero Francesco Cale-ca, il gioco d’azzardo era il «polmone finanziario dell’organizzazione».
Tutte le imprese di gioco d’azzardo che facevano capo a Femia avevano un mercato parallelo di schede contraffatte commercializzate su tutto il territorio nazionale. Ma, come in Aemilia, la violenza, a partire proprio dal sequestro tra Borgo Tossignano e Imola, non manca. In entrambi i processi la frase che probabilmente è stata più ripetuta è «non mi ricordo». Frase detta da imprenditori, da professionisti, da persone che, secondo quanto era stato riferito durante le indagini preliminari, erano state minacciate, intimidite, picchiate.
In Black Monkey, il proprietario di un bar con delle slot machine noleggiate da una delle aziende di Femia viene minacciato di morte («stai attento ché ti taglio la gola») dopo aver preso la decisione di cambiare società da cui prendere le slot: decide presto di ritirare la denuncia fatta per paura di ritorsioni e in aula durante la testimonianza dice di non ricordarsi l’accaduto. In Aemilia solo uno dei tredici lavoratori sfruttati dalla cosca durante la ricostruzione post-terremoto si è costituito parte civile.
«All’inizio non ero intimorito, ma ora sì: ho tre bambini. Sono stato avvicinato quando ho deciso di costituirmi parte civile, ora ho paura», ha detto in aula quell’unico operaio che ha deciso di denunciare lo sfruttamento subito. (so.na.)
L”articolo completo è su «sabato sera» del 15 novembre
Nella foto studenti di Libera davanti al tribunale di Reggio Emilia per seguire il processo Aemilia