La testimonianza di Noemi Dalmonte sul medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace 2018
Una domenica mattina di agosto di nove anni fa un collega del Comitato internazionale della Croce Rossa bussò alla mia porta con Malaika tra le braccia, febbricitante e con degli occhi vitrei che ricorderò tutta la vita. Tre mesi prima Malaika aveva avuto la sfortuna di coltivare la terra in una zona molto prossima a combattimenti tra l’esercito congolese e i ribelli Mai Mai. Il marito la ritrovò nuda e quasi in fin di vita nel campo e la portò in un ambulatorio.
Le settimane passavano e Malaika non guariva. Il marito la prese in spalla sino alla Croce Rossa. E fu così che Malaika arrivò a Minembwe, un villaggio negli altopiani del Sud Kivu in Repubblica Democratica del Congo, dove vivevo e lavoravo da marzo ad un programma di lotta contro la violenza di genere per un’organizzazione non governativa. Insieme ad una collega la presi tra le braccia e la portai all’ospedale che appoggiavamo con supporto tecnico e finanziario. Malaika aveva una fistola retto vaginale e una grave infezione; era a rischio di setticemia quando la visitarono. Mi tenne la mano per ore chiedendomi di non lasciarla.
Grazie alle Nazioni Unite riuscii ad evacuarla a Bukavu, all’ospedale di Panzi, in meno di 24 ore. Quando Malaika salì su quell’elicottero dell’Onu era ancora viva e stava per arrivare da quel dottore che «riparava le donne». Ero certa che ce l’avrebbe fatta. Ma Malaika non ce la fece. Così conobbi, per telefono, il dottor Denis Mukwege. Prese il tempo di chiamarmi per annunciarmi il decesso. L’aveva operata non appena arrivata in clinica ma lei non aveva superato la notte.
Mi disse che quello stupro collettivo, estremamente violento, con kalashnikov e pezzi di legno non le aveva distrutto l’apparato riproduttivo, lui aveva tentato di ripararlo con un discreto successo operatorio ma l’infezione era troppo avanzata e c’era persino l’Aids. L’operazione quella volta non fece miracoli. Ma Mukwege ha curato migliaia di Malaika nei suoi vent’anni di servizio a Panzi, l’ospedale di Bukavu, che fondò nel 1999 grazie alla generosità di una missione protestante svedese. Molte ce la fanno, alcune no.
Il 5 ottobre gli è stato conferito il premio Nobel per la Pace 2018 in riconoscimento della sua dedizione e coraggio nel continuare a curare le vittime della guerra congolese e nel continuare a far parlare di quello che succede nel Paese africano.E’ passato quasi un decennio dal giorno in cui ho preso Malaika tra le braccia; io ho continuato a lavorare nelle crisi umanitarie e dal 2016 sono di nuovo in Repubblica Democratica del Congo a dirigere dalla capitale Kinshasa il programma di lotta alla violenza di genere per il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (Unfpa), l’agenzia dell’Onu per i diritti sessuali e riproduttivi.
La situazione nel Paese non è cambiata molto dal 2009, ma in Occidente se ne parla sempre di meno, influenzati da una certa stanchezza per questa guerra che sembra senza soluzioni. Nell’est si può dire che perdura dal genocidio in Ruanda del 1994, ma è nel 2017 che il paese ha vissuto la più grave crisi umanitaria della sua storia. Oggi si stima che 13 milioni di persone ne siano toccate e 10,5 milioni hanno bisogno di assistenza. Una crisi seconda sola a quella di Yemen e Siria, con cifre negate dal governo che non facilita la gestione degli aiuti.
Durante la Conferenza dei donatori sulla situazione umanitaria in Repubblica Democratica del Congo ho chiesto agli stati membri delle Nazioni Unite 68 milioni di dollari per quest’anno, ma ad ottobre inoltrato il bilancio è che ne abbiamo meno di un terzo. In Congo, ogni anno si assistono circa 20.000 casi di violenza di genere di cui il 60% circa sono stupri e tra questi una cifra che oscilla tra il 60% e il 10%, secondo le zone, sono stupri di guerra. Una delle peggiori conseguenze mediche sono le fistole, una fessura o lacerazione della parete vaginale o anale che causa perdite di feci e urine continue e di varie entità. E’ chiamata nei villaggi «la malattia della vergogna», perché chi ne soffre è fortemente stigmatizzata, si isola, si nasconde.
In realtà le fistole sono una conseguenza molto più frequente delle gravidanze precoci più che degli stupri. Unfpa stima che circa il 9% delle fistole curate in Congo siano causate da uno stupro, sembra una piccola percentuale ma indica un numero molto grande di persone. Mukwege l’ho ritrovato alla testa dell’ospedale di Panzi a Bukavu. Continua ad offrire servizi ginecologici e di ostetricia sempre migliori ed un eccellente programma di cura delle violenze sessuali. Alterna il lavoro da medico con quello di testimone della tragedia delle donne congolesi in giro per il mondo. (No. Da.)
L”intero articolo è su «sabato sera» del 18 ottobre
Nella foto tratta dal blog di Noemi Dalmonte Tappingdiotima il dottor Denis Mukwege