Neurochirugia su una donna incinta nel medioevo, la scoperta su uno scheletro trovato sotto la via Emilia a Imola
Spesso si viene a conoscenza delle scoperte archeologiche nel momento dello scavo. Si fanno le prime ipotesi, poi dei reperti per lungo tempo non si sa più nulla. Molti scheletri rinvenuti nel nostro territorio e ritenuti particolarmente interessanti, ad esempio, vengono inviati al laboratorio di archeo-antropologia e antropologia forense dell’Università di Ferrara. E’ successo anche per i resti di una donna e del bimbo che aveva in grembo, rinvenuti nel 2010 in via Emilia a Imola durante la posa dei tubi del teleriscaldamento, nel tratto che da piazza Ferri arriva fino a via Fratelli Bandiera. In particolare, nei pressi della chiesa di San Giacomo, furono ritrovate delle tombe a cassa laterizia con copertura alla cappuccina, ossia con tegole spioventi. Una scoperta risalente all’epoca longobarda (VII-VIII secolo dopo Cristo).
Nell’estate del 2017, e per i successivi sei mesi, il suo scheletro è stato studiato e nel febbraio di quest’anno i risultati dell’indagine sono stati messi nero su bianco in un articolo all’interno della rivista World Neurosurgery della Federazione mondiale di neurochirurgia. Gli autori sono le antropologhe Alba Pasini e Vanessa Samantha Manzon, la viceditettrice del Dipartimento di Sicenze biomediche e chirurgo specialistiche dell’Università di Ferrara, Emanuela Gualdi, e l’archeologo Xabier Gonzales Muro, che si è occupato dello scavo.«Dalle analisi è emerso che le ossa sono di una donna di età compresa tra i 25 e i 35 anni e alta circa un metro e 60 – spiega l’antropologa Alba Pasini -. Le ossa più piccole, invece, sono di un feto arrivato alla trentottesima settimana di gestazione, quindi quasi al termine della gravidanza».
Perché questa scoperta è considerata così importante?
«Quella tomba – risponde la Pasini – mostra due eventi piuttosto rari nella letteratura archeo-antropologica relativa all’epoca altomedioevale, ossia la trapanazione del cranio e l’espulsione del feto (ovviamente già morto, ndr) in seguito al decesso della madre. Per quanto riguarda il primo, in tutta Europa sono stati scoperti altri 4 o 5 casi, mentre per il “parto in bara” si contano una decina di casi in tutto il mondo e questo è il primo in Italia. Queste due evidenze ci hanno portato a riflettere sulla loro correlazione».
A cosa serviva la trapanazione?
«Si tratta di una pratica che avveniva già nell’Età del bronzo, durante la preistoria, ed è proseguita fino al Novecento. Era un metodo usato in caso di sintomi quali ipertensione a livello del cranio, febbre alta e convulsioni. Tutti e tre, tra l’altro, si possono manifestare in caso di eclampsia, la sindrome ipertensiva più comune in gravidanza. Sono sintomi che a livello osseo non si vedono, la nostra è solo un’ipotesi, tuttavia il fatto che lei fosse incinta ci fa credere che la trapanazione possa essere avvenuta per questo motivo, visto che serviva per alleggerire la pressione sanguigna. Il fatto che questa operazione neurochirurgica sia stata effettuata in questo particolare periodo storico così “buio” per la scienza, ossia l’alto medioevo, è la dimostrazione che certe tecniche venivano applicate ugualmente, anche nei piccoli centri».
La trapanazione potrebbe aver provocato la morte della donna?
«L’analisi ossea ci ha confermato che è morta 5-7 giorni dopo questa pratica perché abbiamo riscontrato dei segni che testimoniano l’inizio di un processo di guarigione nell’osso. La trapanazione potrebbe aver provocato un’infenzione, così come la donna potrebbe essere morta per l’aggravarsi dell’eclampsia, oppure per un problema insorto durante il travaglio. Dall’analisi ossea non possiamo saperlo con certezza».
La seconda particolarità di questo ritrovamento è appunto il feto, espulso dal corpo della donna dopo che lei era morta, già nella tomba.
«Il feto era a testa in giù, con le gambe ancora all’interno del bacino della madre, mentre testa e scapole erano già all’esterno. E’ raro vederlo perché le ossa di un neonato sono molto fragili, ma si tratta di un processo del tutto naturale durante la decomposizione del corpo. In particolare, nella fase cosiddetta enfisematosa, vengono prodotti dei gas da cui dipendono alcuni fenomeni quali lo svuotamento della vescica, la fuoriuscita delle feci e, come in questo caso, lo svuotamento dell’utero».
Ora cosa succederà ai due scheletri? Verranno esposti, magari a Imola?
«Per il momento sono ancora nel nostro laboratorio a Ferrara. Il nostro lavoro è ultimato, ma spetterà alla Soprintendenza decidere cosa farne». (gi.gi.)
L”articolo completo sul “sabato sera” del 19 aprile 2018.
L’antropologa Alba Pasini