CooperAttivaMente, l”intervento di Paolo Rumiz che racconta l’Armata della musica: «La European Spirit of Youth Orchestra, metafora dell’Unione»
Vengono da Polonia, Austria, Serbia, Italia, Ucraina, Germania, Bielorussia, Ungheria, Slovenia, e ancora da Olanda, Romania, Macedonia. Persino dal Libano, che non è Europa, ma è il luogo dove Europa nacque. La bella figlia del re di Tiro, rapita da Giove e portata per amore in Occidente.
Ottantaquattro giovani fra i 13 e i 20 anni, di dodici nazioni, ospiti per le prove al Collegio del mondo unito, molti alla loro prima tournée sinfonica.
Migranti a loro modo, essi compiono un viaggio in musica e parole attraverso quell’universo di popoli, lingue, fiumi, mari e montagne che ha nome Europa. E’ la European Spirit of Youth Orchestra, l’unica che si riforma ogni anno e ogni anno si dissolve, seminando nei teatri del mondo talenti musicali che resteranno legati per sempre a questa irripetibile iniziazione. E’ la scommessa controcorrente di un maestro triestino, Igor Coretti Kuret.
In una tournée che la scorsa estate dal Piemonte e le Alpi ci ha portati fino a Roma, a Capua antica, Napoli, i Sassi di Matera, la Puglia profonda e i monti del terremoto in Appennino, abbiamo parlato di strade, sentieri, ferrovie, ponti, tracce, tratturi che hanno consumato milioni di scarpe, spostato milioni di vite e bagagli. Abbiamo celebrato insomma i cammini, a partire dalla grande Numero Uno, la Via Appia antica, che una pattuglia di esploratori ha riconsegnato all’Italia dopo decenni di oblio. Contro il nuovo rinascimento dei muri, abbiamo dato voce a chi migra per lavoro, amore, paura, curiosità, fame o semplice inquietudine.
Un modo, il nostro, anche per dire che l’Unione europea, che ci ha garantito settant’anni di pace, non è un regalo del cielo, ma qualcosa che un giorno potrebbe anche scomparire, come gli imperi dopo la Grande guerra.
Qualcosa che, per durare, va costruita giorno dopo giorno. Con pazienza, responsabilità e fatica. Esattamente come questa orchestra.
Con i suoni è impossibile competere perché i suoni sono l’essenza del mondo. Il tuono, il canto, il mormorio, il vento, la litania, il rimbombo, il brusio: è questo che fa unico il tuo viaggio. Anche il silenzio, quando la notte dilata i sensi e indica sentieri dimenticati coperti dalla polvere del tempo.
Europa è sinfonia, pentagramma. Il fruscio degli uliveti sotto la luna in Sardegna. Il canto del Reno che spumeggia nel cuore delle Alpi svizzere. La bora che fa cantare le scotte delle vele e accende voglia di frontiere. Il tuono dell’Atlantico sotto i faraglioni di Cornovaglia. I muezzin di Mazara in Sicilia, che cercano la sponda tunisina. I violini zingari sulle rive del Danubio.
Europa è il rintocco della campana di San Marco a Venezia che chiama i minareti di Costantinopoli perché il Bosforo è la continuazione del Canal grande. E’ lo sferragliare di un treno che fila verso il Mar Nero nella luce verde della sera, mentre le prime stelle paiono fiaccole celesti di un allucinato Van Gogh.
Europa è il ventaglio di luce che, all’alba, in un monastero serbo, disegna pentagrammi nell’incenso attorno al fiato dei cantori, prima che il bosco si svegli, e merli e cinciallegre cantino le lodi di Lui.
E’ il canto rauco di un gallo tra i resti di un tempio nel Peloponneso, con una luna di pergamena che si inabissa nello Jonio.
Europa, oggi chi canta più la tua leggenda?
Il mito ci ricorda che sei una figlia dell’Asia, che sei la sponda dove tutto finisce, il giardino delle Esperidi. Sei il vento che strattona le vele di chi passa Gibilterra. Il coro favoloso delle visitatrici russe nella cripta di San Nicola di Bari. Il mormorio del Tago che sfocia in un estuario di luce a Lisbona, alla fine della Terra del tramonto, e ci indica il senso più antico del tuo nome.
Oggi parlare di Europa è far politica, ma io e la European Spirit of Youth Orchestra non siamo di nessun partito.
Non portiamo voti. Ma offriamo a queste terre di confine il loro senso autentico. Quello che fu – e non è più – di Sarajevo, di Odessa, Alexandria. Essere punto di incontro delle culture che hanno fatto l’Europa. Il mondo slavo, latino, tedesco ed ebraico.
Il nostro è un discorso politico, nel senso più alto. Il tentativo di offrire alla politica una narrazione nuova, e più emozionale, dell’Europa, questa nostra patria comune così male amata.
Non è affatto un caso che tutto questo sia partito da Trieste. Le frontiere sentono l’Europa più dei grandi centri, e noi siamo Europa. Più di Bruxelles, Berlino, Roma, Madrid, Parigi.
Gli 84 ragazzi che compongono l’orchestra sono il nostro Hinterland. Lo ricostruiscono in musica, meglio di tanti discorsi.
Ci ricordano che non c’è Europa senza Oriente, e senza un orizzonte mediterraneo.
Paolo Rumiz
L”ARTICOLO E” STATO PUBBLICATO NEL NUMERO 6/2018 DEL 12 OTTOBRE 2018 DI SABATO SERA